Simone Molteni: rispetto del capitale naturale e visione di lungo periodo per un’economia sostenibile

Il direttore scientifico di LifeGate presenterà ad HighSummit le esperienze maturate nell’ambito del progetto Impatto Zero e la loro applicabilità ai modelli di sviluppo delle aree montane

Non è nel breve periodo che va misurata l’efficacia dei modelli di sviluppo e, soprattutto, non è tenendo conto esclusivamente degli introiti di chi produce beni e servizi. Una valutazione realistica deve riferirsi ad un arco temporale sufficientemente ampio e, soprattutto, deve considerare i costi pagati dal territorio e dalla collettività,in termini di danni ambientali e di perdita della qualità della vita dei cittadini.
Si tratta di principi non certo nuovi per chi si occupa dei temi legati allo sviluppo sostenibile, ma che spesso rimangono ideali astratti, incapaci di far presa sull’economia reale.
Fra gli esempi di tentativi riusciti nel trasformare questi ideali in strategie operative c’è sicuramente quello di LifeGate che, da circa 20 anni, con il marchio Impatto Zero, accompagna le aziende nello sviluppo di concreti programmi di riduzione della loro impronta ecologica, in particolare per quanto concerne la produzione di anidride carbonica, attraverso la creazione di nuove foreste.
Un’esperienza ricca di spunti interessanti che entrerà a far parte del grande confronto di High Summit COP26 grazie all’intervento di Simone Molteni, direttore scientifico di LifeGate, invitato a presentare la propria relazione nell’ambito della sessione dedicata agli impatti ambientali e socioeconomici dei cambiamenti climatici e alle strategie di mitigazione. Nell’intervista che ci ha rilasciato Molteni anticipa i passaggi salienti del suo intervento.

Come si lega la vostra esperienza ventennale nel progetto Impatto Zero con le tematiche inerenti i cambiamenti climatici e lo sviluppo delle aree montane?
“Noi di LifeGate abbiamo lanciato il progetto Impatto Zero 21 anni fa ed è stato il primo progetto al mondo a occuparsi della crisi climatica dando la possibilità alle aziende di calcolare l’impatto ambientale dei propri prodotti o dei propri servizi e di compensarlo con la creazione di nuove foreste, capaci di riassorbire queste emissioni. Oggi ci sono più di 400 milioni di prodotti che sono andati sul mercato con il nostro marchio, quindi che hanno fatto questo percorso di calcolo, riduzione e poi compensazione delle emissioni. Mi piace raccontare questa esperienza perché secondo me deve essere la base del ragionamento per tutto quello che si vorrà fare di montagna, così come in altri ambienti, nel futuro. Abbiamo creato un progetto in cui da una parte si è portata alle aziende e ai consumatori consapevolezza del loro impatto ambientale e di quello dei prodotti, e, dall’altra, si è andati costituire dei fondi che servono a conservare il capitale naturale”.

Cosa vi ha insegnato questa esperienza in termini macroeconomici e di strategie dello sviluppo?
“Da questa esperienza abbiamo imparato che i paradigmi economici vanno pensati bene fin dall’inizio. Perché, se non sono pensati in un modo in cui tutti i pezzi del puzzle si articolino in una visione coerente e sostenibile nel lungo termine, nascono poi un sacco di problemi. Il primo requisito che deve avere qualunque modello di sviluppo è che quello che si va a fare deve rispettare il capitale naturale e deve creare un indotto economico che serva a conservare e migliorare questo capitale. Questo è il lavoro che abbiamo fatto ad esempio in Costa Rica, dove le foreste non sono state tagliate per produrre legname ma trasformate in parchi nazionali in cui la gente può andare pagando un biglietto. La differenza di business model è totale: nel primo il capitale naturale viene svenduto e consumato, nel secondo si generano introiti che servono proprio a garantirne la conservazione, perché perdendo una foresta si perde quell’attrattiva che genera il tuo business. Quindi il primo punto importante è sviluppare modelli i cui introiti siano basati sulla conservazione del capitale naturale”.

Come si applica questo modello alle aree montane?
“Questa impostazione è particolarmente interessante per le terre alte. Nelle città o nelle campagne, dove c’è già tutto un impianto economico e di sviluppo precedente è molto più complicato intervenire. La montagne invece spesso sono luoghi dove la natura è preminente e incontaminata e da lì si può partire per impostare un modello di sviluppo sostenibile”.

Un’impostazione di questo genere richiede sicuramente una prospettiva “ampia” dal punto di vista imprenditoriale ed economico, nella quale l’interesse della singola impresa sia bilanciato da quelli del territorio in cui si sviluppa…
“Certo, per impostare un modello di sviluppo sostenibile è essenziale calcolare fin dall’inizio ed esplicitarne le esternalità. Questo significa che non si può più ragionare a compartimenti stagni, lasciando che le imprese si occupino del loro business per poi mettere in conto alla collettività i costi e le conseguenze della loro attività sull’ambiente e il territorio. Se si decide ad esempio di fare un’autostrada o una qualsiasi attività che genera tutta una serie di emissioni e di impatti, non si può pensare che chi beneficia di quell’impresa paghi solo ed esclusivamente quello che è richiesto dal sistema economico di oggi. Se vuoi bruciare 2 tonnellate di cherosene in centro città oggi devi pagare solo le due tonnellate di carburante e tutto il problema generato da quelle emissioni è lasciato alla società. È evidente che non possiamo più ragionare così”.

Chi deve occuparsi di fare queste valutazioni e definire le modalità di compensazione delle esternalità?
“Ci deve essere una governance alta che coinvolga la politica, e che stabilisca limiti e incentivi, proprio per non lasciare campo libero ad attori diversi e scoordinati, che guardano esclusivamente il proprio perimetro e lasciano ad altri l’onere di gestire le esternalità. Inoltre questa governance deve costituire quella visione di lungo termine senza la quale invece che liberi di portare avanti una visione sostenibile ci si trova schiavi di infrastrutture e i modelli che, anche se si rivelano poi problematici, non possono essere facilmente sostituiti o convertiti. Serve pertanto una regia pubblica illuminata, che abbia più margini di manovra di quello che vediamo oggi”.

Un’economia che tenga conto di tutti questi elementi non rischia di partire troppo appesantita dal punto di vista dei costi?
“Nella nostra esperienza ciò accade quando la visione della sostenibilità non è stata applicata dall’inizio, ma si cerca di applicarla in corsa o dopo che un modello non sostenibile è già stato sviluppato. Se invece si ragiona fin dall’inizio in quest’ottica sostenibile, non esiste mai il problema dei sovra costi, perché quello che può sembrare più favorevole economicamente all’inizio, se si ragiona sul lungo termine, evidenzia dei costi che sono superiori a quelli di un sistema che è stato pensato in modo sostenibile dall’origine. È solo una questione di orizzonte temporale e la gestione di un territorio non può non essere fatta a lungo termine. Quando l’orizzonte è di 50 o di 100 anni, sempre e comunque vince, anche da un punto di vista economico, un sistema ispirato alla sostenibilità. Faccio un esempio banale: se si guarda ad un orizzonte decennale la costruzione di una centrale nucleare è sicuramente una scelta vantaggiosa, il piccolo dettaglio è che, quando guardi a lungo termine, ti accorgi che dovrai gestire e mettere da qualche parte delle scorie per i prossimi 1000 anni”.

Si tratta in qualche modo di introdurre un concetto di azienda territorio?
“Per come la vedo io è l’azienda che deve essere integrata in una visione del territorio più alta, che deve essere figlia di una governance di quel territorio che è pubblica. Quindi se l’azienda non ha le capacità di avere una visione globale, quella visione la deve avere qualcun altro, la deve spiegare e tu azienda devi capire come ti vuoi infilare in questa visione con le regole che ha. È una grande sfida sicuramente, però questo è anche un momento molto positivo, perché ci sono un sacco di fondi e c’è un mercato che richiede merci e servizi prodotti in una filiera sostenibile. Vista l’impellenza della crisi climatica oggi è anche molto più chiaro comprendere il perché sia necessario prendere queste decisioni”.

Che riscontri avete avuto dalle aziende che hanno adottato questa filosofia e vi hanno seguito nei vostri progetti Impatto Zero?
“Avendo lavorato con migliaia di aziende non abbiamo una risposta univoca. Però possiamo dire che quando viene integrata la prospettiva e viene capito il perché, le aziende aderiscono molto volentieri a questo modello. Questo accade soprattutto in realtà dove c’è ancora un imprenditore e non solo un amministratore delegato. È sempre un problema di orizzonte: se tu hai davanti dei manager che hanno uno o due anni di orizzonte perché poi sanno che andranno da un’altra parte è più difficile vedere fiorire dei progetti “rotondi”; si tende a fare scelte tattiche piuttosto che strategiche. Quando invece c’è un manager illuminato o un imprenditore che immagina di essere ancora lì fra trent’anni, quello che gli interessa non è solo ciò che guadagnerà oggi. Io sono molto positivo sul fatto che, quando le cose vengono spiegate fino in fondo, dedicandogli il giusto tempo e coinvolgendo la gente su una visione a lungo termine, allora diventa tutto abbastanza logico ed è facile convincersi che questo tipo di economia sostenibile sia la via giusta da percorrere”.

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